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Il percorso terapeutico

Premetto che la psicoterapia analitica ha un setting diverso dall’analisi tradizionale: in psicoterapia non si usa il lettino e le sedute si svolgono come una conversazione viso a viso, con appuntamenti regolari una o due volte la settimana al massimo.

Come afferma Fabio Metelli nella prefazione al libro “Psicoanalisi e psicoterapia analitica” di Munari e Racalbuto, mentre l’analisi mira ad una ristrutturazione della personalità, gli obiettivi della psicoterapia analitica sono più limitati: si tratta di intervenire sulle aree connesse a determinati disturbi di un paziente, allo scopo di migliorarne le condizioni psichiche, ristabilendo un equilibrio nel rapporto con se stesso e con gli altri.

Una psicanalisi classica richiede sempre tempi lunghi, una psicoterapia può raggiungere lo scopo prefissato con un numero inferiore di sedute.

Ciò non significa che condurre una psicoterapia sia più facile che un’analisi, dal momento che la psicoterapia “richiede maggior autocontrollo .. e un’elevata capacità di prestare attenzione ai modi di comunicare dei pazienti e ai loro bisogni” (Limentani A., Ibidem)

La persona che soffre di un disturbo. del comportamento alimentare non sempre arriva dallo psicoterapeuta con una personale e vera motivazione alla psicoterapia. Come ho accennato all’inizio, il sintomo è già per la persona una “soluzione”. Inoltre, fornisce di solito un importante vantaggio secondario nella relazione con i genitori e gli altri familiari, che preoccupati e in ansia diventano più attenti, sensibili e disponibili.

Quando i genitori si rendono conto che la figlia ha un problema serio nei confronti del cibo, di solito provano diversi sentimenti contrastanti: apprensione, senso di colpa, mortificazione, rabbia. A volte essi hanno molte resistenze ad ammettere che si tratta di una vera e propria malattia e non di un capriccio o di una modalità oppositiva, magari temporanea, e che non bastano ragione, convincimenti, volontà o punizioni per ripristinare una situazione di normalità.

Anche i genitori soffrono e possono reagire al dolore con modalità non sempre costruttive.

Come altre colleghe descriveranno nei prossimi incontri possono esservi, inoltre, delle ragioni inconsce che inducono la famiglia a mantenere la situazione in atto, piuttosto che ricercare o facilitare un cambiamento.

Anche i genitori hanno bisogno di essere aiutati, informati e sostenuti nel difficile e faticosissimo compito di aiutare a propria volta la figlia ad uscire dalla malattia. Ed è di fondamentale importanza che credano nell’aiuto psicoterapeutico, abbinato a quello farmacologico se necessario. Nella mia esperienza ho verificato che quando i genitori sono consapevoli e collaboranti (cioè disposti a rivedere se stessi e il loro rapporto con la figlia, fiduciosi e non intrusivi) il cammino verso la guarigione è più facile e di solito più breve.

A volte può passare molto tempo prima che la persona decida di iniziare una psicoterapia, anche se c’è l’appoggio dei genitori e più di un terapeuta che si è dichiarato disponibile.

La fase iniziale di una psicoterapia, che si identifica sostanzialmente nella costruzione di una relazione di fiducia, può essere anche molto lunga ed impegnativa, perché queste pazienti sono in genere diffidenti o molto sfiduciate. Uno dei problemi che mostrano e sentono di più, al di là del peso e delle calorie, è la mancanza di una misura nello stabilire e mantenere le distanze “affettive” nelle relazioni con gli altri: o si aggrappano o si isolano. Esse si difendono in tal modo dallo sperimentare un contatto emotivo intenso, pur desiderandolo.

Per favorire la fiducia, il terapeuta si mette “a disposizione” della paziente: l’ascolta, evita di essere intrusivo e nello stesso tempo riflette in modo empatico le sue considerazioni. Non interpreta. Evita di entrare nel merito di peso e calorie (che sono di competenza del medico e della dietologa) e si mostra interessato a scoprire insieme a lei il senso del disturbo che pervade la sua vita quotidiana.

I primi segnali di un senso di fiducia verso il terapeuta di solito sono emozioni legate a qualche ricordo piacevole o spiacevole dell’infanzia, oppure il racconto di un sogno.

A questo punto può iniziare il vero lavoro terapeutico. Spesso è la curiosità di capire cosa è accaduto e non funziona dentro di lei che motiva la paziente a riflettere sul suo mondo interiore, mentre prendono spazio i sentimenti legati al transfert. Il rischio di acting out rimane comunque sempre molto alto. La paziente può rifiutare categoricamente anche la più piccola interpretazione. In questo periodo la situazione rispetto al cibo, in casa e nelle relazioni esterne non sempre migliora, a volte anzi può peggiorare, come se la paziente “facesse pagare” ai genitori una fatica che a suo vedere dipende solo da loro.

La condotta masochistica sembra esprimere un “bisogno di fallire”, per dirla con le parole di Walter Bruno: una ricerca perversa di conferme del non amore o dell’indifferenza da parte degli altri. Questo accade anche nella relazione terapeutica. Per molti mesi la relazione con la paziente può avere la caratteristica quasi di un idillio o di una forte intesa. E’ difficile per il terapeuta non cadere nella trappola di sentirsi il genitore ideale che la paziente ha sempre sognato. Poi ad un certo punto si verifica un colpo di scena: la paziente è delusa anche solo da una piccola mancanza del terapeuta che improvvisamente riconosce “imperfetto”. E’ il momento più delicato della psicoterapia. Se il rapporto tiene, c’è la possibilità di ri-sperimentare il trauma infantile nella situazione protetta della psicoterapia: per la paziente ciò significa scoprire, attraverso il sentire piuttosto che il pensare, cosa è mancato, provare dolore per questo, potersi svincolare dall’immagine di un genitore idealizzato e far posto ad un genitore più reale con i suoi difetti e le sue qualità positive.

In sostanza si tratta di far vivere alla paziente una “esperienza correttiva” (Franz Alexander) per potersi separare dall’infanzia e ricominciare a crescere.

Dr.ssa Rotolo